Scrivere di Sport – Il parquet lucido di Francesco Mecucci

Scrivere di Sport incontra Francesco Mecucci, autore di “Il parquet lucido – storie di sport”

Francesco Mecucci, classe 1982, giornalista professionista, si occupa di cultura, sport e progetti editoriali. Collabora con uffici stampa e agenzie di comunicazione, creando contenuti per media, web e social. Nel basket, ha seguito i campionati femminili e minori per quotidiani e testate locali e scritto di pallacanestro americana ed europea su vari siti specializzati. È l’ideatore del blog Never Ending Season e della newsletter Galis.

Di tutti gli elementi che ci rendono il basket così familiare, forse il parquet è il più affascinante. È il parquet che dona alla pallacanestro un magnetismo e una fotogenia unici, sprigionando il calore adatto a ospitare sulle sue assi lo spettacolo straordinario di questo sport. Quel rettangolo di legno segna i confini di una dimensione tutta particolare, pervasa dall’inconfondibile stridio delle scarpe e dal magico suono della palla spinta ritmicamente dalle mani dei giocatori. È il luogo della vittoria e della sconfitta, è il teatro di imprese e rivoluzioni sportive. Il parquet è stato per Francesco fonte di ispirazione per tutte le storie raccontate nel su libro.

L’intervista a Francesco Mecucci

Scrivi da sempre, ami la scrittura, soprattutto quella sportiva, ma cimentarsi nella creazione e stesura di un libro è sicuramente una cosa differente. E allora da qui la mia prima domanda: come si scrive un libro? Come hai sviluppato la tecnica di scrittura che ti ha portato a realizzare “Il parquet lucido”? Come è nato questo bellissimo libro “a spicchi”?

“Ci sono tanti modi di scrivere un libro, così come ci sono tanti generi di libro. La costante è che un libro deve avere un equilibrio compositivo e uno sviluppo coerente. È un ottimo sistema per organizzare le proprie idee ed emozioni: non basta tirarle fuori, bisogna dar loro una forma, un ordine, per trasmetterle in maniera efficace a chi le leggerà. Fare un libro aiuta molto in questo. Per quanto riguarda “Il parquet lucido”, la sua nascita è stata piuttosto rapida: i 27 capitoli sono in gran parte articoli che avevo già scritto per siti con cui collaboravo e per il mio blog. In più ho aggiunto alcuni inediti. L’idea è nata nell’autunno 2019, poi il primo lockdown ha velocizzato il processo e così, dopo aver trovato un editore valido, il libro è uscito a fine agosto 2020. Dunque molti testi li avevo già pronti, ci ho solo fatto qualche ritocco, perché un libro non è un magazine e alcuni passaggi necessitavano di adattamento. La scrittura è giornalistica, è il mio lavoro, e le storie – soprattutto basket americano, ma anche dell’area FIBA – parlano di personaggi, squadre e vicende che hanno lasciato un segno indelebile sul gioco. La discontinuità è data dalle due appendici: la prima è un mio diario di viaggio da New York; l’altra è l’unica storia di fantasia, un racconto dedicato alla passione per la pallacanestro nell’Italia di provincia e alle sue palestre storiche. Tengo a sottolineare che non scrivo mai storie di finzione, non è nelle mie corde, ma questa volta è successo: potenza del basket!”

Parliamo di pallacanestro ieri e oggi e cerchiamo di capire le sostanziali differenze che ci sono e che sussistono da sempre tra il basket americano e la pallacanestro europea. Nella tua introduzione tu definisci la NBA come uno sport che sa essere “progressista ma altrettanto conservatore, capace di evolversi e anticipando straordinariamente i tempi e i costumi, arrivando anzi a influenzarli e a determinarli, ma rispettando sempre alcuni “paletti”, utili per scongiurare qualsiasi snaturamento e perdita di identità”. Credi quindi che, in Italia e in Europa, negli anni ci sia stata una perdita di identità cestistica nel movimento?

“La NBA è all’avanguardia, e non certo da oggi. Sa innovare e conservare al tempo stesso. In generale, gli statunitensi sono maestri indiscussi del marketing e il loro modello di organizzazione è straordinario, basta presenziare a una partita per rendersene conto. Credo che sia possibile copiare da loro alcune idee, anzi va fatto, ma eguagliarli no, è anche una questione di profonde differenze culturali. In ogni caso, a me piace come si è strutturata l’Eurolega, con la formula a girone unico che dà continuità all’evento, gli stringenti requisiti di accesso, una crescente attenzione al brand. Il basket europeo, al top, ha fatto progressi importanti. Parlando di Italia, invece, negli ultimi quindici-venti anni c’è stata una forte perdita    d’identità. Ovviamente abbiamo avuto a che fare con grossi problemi economici, basti pensare a quanti club sono falliti, ma anche la scarsa lungimiranza ha avuto un peso. Qualcosa sta migliorando, penso al successo della Final Eight, alla crescita di Milano e Virtus Bologna, ad alcune realtà giovani e virtuose, ma siamo ancora lontani da un prodotto di vero appeal. Guarda le divise e i parquet pieni zeppi di sponsor: capisco la necessità di denaro, ma come design sono orribili!”

“Il parquet lucido”, attraverso i suoi racconti, offre uno spaccato storico e sociale nel quale il basket si inserisce con naturalezza estrema, diventando un mezzo di riscatto delle minoranze, di piccoli angoli di un grande paese e uno strumento che ha consentito alle università di poter avere uno spazio importante nel panorama storico sportivo americano. Come sottolinei più volte, in America non c’è solo la NBA “perché negli USA lo sport scolastico e dei college è quello più radicato nel tessuto sociale”. Qual è il rapporto tra sport scolastico e NBA? Perché non riusciamo a costruire un modello tale anche qui in Italia?

“Negli USA è sconosciuto il concetto di settore giovanile, perché la formazione di un atleta è affidata a scuole e università. Le quali hanno budget e strutture clamorose, veri e propri stadi e palasport. La pratica sportiva non è vista come un optional, ma è parte integrante della crescita di un giovane. E se produce bei soldini, non si dice di no, mai. A questo si aggiunge il discorso socio-culturale: ci sono cittadine sperdute in cui l’unico svago è tifare la squadra scolastica. Film e serie tv ci hanno fatto familiarizzare con tale idea. Allo stesso modo, l’università negli States è un’esperienza di vita totalizzante da cui nasce un legame viscerale che dura tutta la vita: gli americani tifano sempre per le squadre della propria “alma mater”.

La NBA è seguitissima, certo, ma è vista come qualcosa che non tutti hanno a portata di mano, che non “scalda” più di tanto, solo una minima percentuale degli atleti di college riesce ad arrivarci. Per molti lo sport agonistico finisce con la laurea, non c’è il sistema delle categorie dilettantistiche come lo abbiamo qui. Secondo me è impossibile costruire un modello simile in Italia per enormi differenze (e limiti) di carattere storico, culturale, ideologico, organizzativo. Ma come ho detto prima, qualche aspetto si può e si deve mutuare. In primis, potenziare le strutture sportive delle scuole e non considerare l’educazione fisica come l’ultima ruota del carro. Ne gioverebbero la salute dei ragazzi e la società tutta.”

Dopo averlo vissuto da remoto, per usare una frase attuale, sei finalmente approdato negli USA, a New York e a quella esperienza hai dedicato un capitolo del tuo libro. Di solito si dice che si arriva in un posto in un modo e si riparte con una parte di te cambiata. Eri lì per il basket. Cosa ti ha lasciato questo “pellegrinaggio” e cosa hai capito del basket di strada che non avevi compreso prima di allora? Credi che tornare a giocare nei campetti all’aperto in cemento potrebbe essere una “medicina” anche per la nostra pallacanestro?

“Innanzitutto mi ritengo fortunato nell’aver vissuto una settimana a New York nell’aprile 2019, quando era ancora al massimo dello splendore, prima che la pandemia creasse un po’ di problemi. Ho assistito a due partite NBA, una al Madison Square Garden e una al Barclays Center. In quest’ultima, Nets contro Heat, ho avuto un’altra fortuna: essere presente all’ultima gara in carriera di Dwyane Wade. Ma il vero cuore pulsante del basket a New York sono i playground, dove vive lo spirito di questa metropoli. Al Rucker Park ero già stato in un viaggio precedente, quindi sono andato alla scoperta di altri “courts”, ce ne sono un’infinità. Lì non ha importanza chi sei o da dove vieni, ma solo quello che sai mettere in campo. Giovani e meno giovani di tutte le etnie si ritrovano insieme a parlare una sola lingua, quella del basket. E nessuno si sognerebbe mai di vandalizzare un canestro, perché un gesto simile metterebbe fuori uso un indispensabile luogo di incontro. Questo mi fa pensare alla splendida tendenza in atto in Italia e in molte altre parti del mondo: riqualificare i playground attraverso la street art e il coinvolgimento delle comunità locali. Sempre più campetti vengono rinnovati e trasformati in opere d’arte. Ma anche senza dipingerci nulla, rendere di nuovo fruibile un playground in degrado migliora la qualità della vita urbana ed è un’operazione di alto valore sociale.”

Tu sei stato giocatore di basket, sei un giornalista, sei un tifoso dell’Inter ma tra calcio e basket non hai avuto esitazioni nella scelta di raccontare uno sport piuttosto che un altro. Hai respirato basket da sempre, conosci dinamiche e linguaggio ma il nostro sport è sempre mediaticamente in sofferenza. Da giornalista sportivo, come si dovrebbe raccontare lo sport oggi? C’è una formula che restituirà alla pallacanestro il giusto spazio che merita?

“Ti racconto una cosa che ti farà piacere: se ho iniziato a respirare basket fin da piccolo, è grazie alle donne. Infatti nella città dove sono nato e cresciuto, Viterbo, c’era una forte squadra di serie A femminile e la domenica i miei genitori e zii mi portavano sempre al palazzetto. È nato tutto da lì. Rispondendo alle tue domande, non demonizzo il calcio, è uno dei miei sport preferiti, ma è chiaro che mi piacerebbe che i media riservassero più spazio al basket e alle altre discipline. O almeno vedere un maggior equilibrio nei titoli e nelle prime pagine quando c’è un avvenimento importante non calcistico. Di certo con un movimento cestistico italiano più solido, vincente e innovativo, sarebbe più agevole. Tra l’altro il basket ha molte connessioni con lo stile di vita e la cultura contemporanea e offrirebbe numerosi agganci per arrivare anche al pubblico meno esperto. Come raccontare lo sport oggi da giornalista, è un discorso estremamente complesso. Il digitale ci ha immerso in una mega rivoluzione, paragonabile all’invenzione della scrittura e della stampa. Da un lato si rischia di essere ripetitivi e quindi inutili, dall’altro la ricerca spasmodica dell’idea brillante produce forzature che finiscono per allontanare dalla realtà. Credo che il giornalista, attraverso una corretta interpretazione del proprio lavoro, debba provare a offrire al lettore un valore  aggiunto, qualcosa che non trova da altre parti, senza strafare. Ma mi rendo conto che, con i guai che attraversa la professione, non a tutti è data la possibilità di lavorare nel modo in cui andrebbe fatto.”


Il Libro

​​Il parquet lucido

Storie di basket

Autore: Francesco Mecucci

Editore: Ultra edizioni


La Video intervista a Francesco Mecucci

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