Scrivere di Sport – Black Boy Fly di Marco Ballestracci

Scrivere di Sport incontra Marco Ballestracci autore di “Black Boy Fly – L’irresistibile ascesa di Major Taylor”

Nato in Svizzera nel 1962, Black Boy Fly è il dodicesimo libro di Marco Ballestracci. Il suo primo libro – Il compagno di viaggio. 9 racconti in blues (Il Foglio Letterario) – è uscito nel 2005. Laureato in Economia e Commercio, cantante e armonicista blues e giornalista musicale, Ballestracci nel 2009 e nel 2012 ha vinto il premio Selezione Bancarella Sport con A pedate. 11 eroi e 11 leggendarie partite di calcio (Mattioli 1985 2008) e La storia balorda (Instar Libri 2011), e il Premio Coni nel 2016 per I guardiani (66th and 2nd 2016). Ha suonato blues per molto tempo e attualmente collabora con l’inserto culturale de Il Foglio.

“Questo sembra un libro che parla di ciclismo ma in realtà è un libro che parla di segregazione”

La musica, grande strumento per combattere la segregazione razziale, accompagna le pagine della storia di Major Taylor. All’inizio di ogni capitolo ci sono citazioni che vanno da John Coltrane ai Neville Brothers a Nina Simone che, eletta dalla rivista Rolling Stone una delle 100 cantanti migliori di tutti i tempi, era anche una attivista per i diritti civili. 

L’intervista a Marco Ballestracci

Scrivere è come suonare il piano. Ci si emoziona mentre le dita scorrono sui tasti. Com’è scrivere un libro che racconta una storia come quella di Marshall? Come hai organizzato la ricerca delle fonti, la struttura del racconto e che metodologia hai usato per portare a compimento questo lungo viaggio editoriale?

“In realtà chi scrive, nel momento in cui scrive, deve essere il più lontano possibile da ciò che chiamiamo emozioni. Non significa che non deve provarle, ma deve farlo nel momento dell’ideazione del libro. Poi le emozioni devono essere assimilate e sintetizzate. Solo quando ciò accade si può scrivere. Bisogna mantenere la giusta distanza, altrimenti si finisce per mettere troppo zucchero nel thè e tutto diventa un poco stomachevole. Me l’ha insegnato tanto tempo fa un grande giornalista culturale, Giovanni Pacchiano, che mi ha aiutato per un certo tempo a canalizzare gli stimoli, diciamo così, scrittoriali. Per “Black Boy Fly” è stato abbastanza semplice, perché, in realtà, ciò che si racconta nel libro è sufficientemente lontano nello spazio e nel tempo per non farsi trascinare dal flusso delle emozioni. Per altri miei libri è stato più difficile. Per quanto riguarda la struttura narrativa del libro, ho trascorso abbastanza tempo nell’accumulare informazioni e per trovare la maniera attraverso cui snocciolare la storia. È stato tuttavia chiaro dall’inizio che dovessi muovermi parallelamente alla musica, perché da ciò che conoscevo della musica nera è nato il nesso logico di “Black Boy Fly” che è poi nient’altro che “mentre l’afro-americano Marshall Major Taylor diventava campione del mondo di ciclismo su pista nel 1898, campione americano nel 1899 e attrazione del ciclismo in Europa nel 1900, nel Sud degli Stati Uniti si continuavano a vendere gli schiavi neri. Emancipazione o non emancipazione”. Tutto il libro e tutta la ricerca storica ruotano attorno a questo nesso.”

Scrivere un testo che racconta una storia legata al razzismo e ambientata solo 30 anni dopo l’abolizione della schiavitù è anche una sfida linguistica. Usare oggi termini che possono sembrare dissonanti e offensivi per la black people è comunque come camminare su di un sentiero di cristallo. Che domande ti sei fatto e come hai affrontato la scelta dei termini e l’approfondimento dei momenti più legati alla profonda frattura che a fine Ottocento era ancora così netta tra i bianchi e i neri?

“Questa è una questione molto complicata, soprattutto ora, perché il politically correct è strabordante, a dir la verità più nella forma che nella sostanza. Tuttavia basta confrontarsi con testi contemporanei all’avventura di Major Taylor, nonché con testi che giungono fino alla seconda metà degli anni Sessanta per comprendere che la terminologia per indicare gli afro-americani è quella che si ritrova in “Black Boy Fly”. D’altro canto il libro è impregnato del modo di sentire della fine dell’800 e della prima metà del ‘900: è a tutti gli effetti un romanzo storico, perciò è soggetto a quel tipo di linguaggio, che conosco abbastanza bene perché, come dicevo, sono appassionato della storia della musica nera. Poi basta leggere un libro come “Lincoln” di Gore Vidal, con inattaccabili fondamenta storico-linguistiche, per trovare una base solida all’uso d’un determinata terminologia. Però non ti nascondo che usare così spesso la parola “negro” m’ha messo un poco in difficoltà, ma d’altro canto era usatissima allora, e non solo con fini offensivi, sia da bianchi che da neri. Come ti dicevo questo è un romanzo storico e perciò non avevo molte altre scelte.”

“Il Signore ci ha mandato un segno dal cielo. Oggi ho visto un giovane nero parlare da pari a pari con un bianco. È un segno del Signore” Mi piace il contorno storico che hai descritto a tratti minuziosamente. Major viveva in un mondo molto diverso rispetto a quello che conosciamo noi oggi. Approfondendo questa parte storica e sociale, quali dettagli ti sono rimasti più impressi che riguardano queste profonde differenze allora molto marcate?

“Scrivere “Black Boy Fly” mi ha fatto tornare in mente certe conclusioni che molto tempo fa avevo tirato quando scrivevo di musica afro-americana. Nonostante le odierne dita puntate, non si è minimamente in grado di capire i tempi. L’essere bianco e l’essere nero erano condizioni profondamente diverse al tempo di Major Taylor e hanno continuato a esserlo almeno fino alla marcia Selma-Montgomery del 1965. Poi gli angoli si sono pian piano un poco smussati, ma le cronache odierne descrivono qual è ancora lo stato delle cose. Ciò nonostante la segregazione, malgrado le ondate di vergogna odierne, al tempo di Major Taylor era, di fatto, una condizione accettata. Pochissimi, bianchi o neri, alzavano la voce per denunciarla. Era una sorta di stato naturale. Non lo dice mai nessuno, ma quando Lincoln nel 1861 inizia a ragionare sul Proclama di Emancipazione, la sua idea è, una volta liberati gli schiavi, di metterli tutti su delle navi e mandarli a Panama a colonizzare quel protettorato americano. “Noi non possiamo convivere”. Così pensava e diceva. Poi, durante la Guerra di Secessione, le sue considerazioni sono mutate, ma il Grande Abe all’inizio la pensava esattamente così. La questione razziale negli Stati Uniti è estremamente complicata e si è completamente fuori strada quando si riduce tutto al “politically correct” e alla denuncia attuale di ciò che è accaduto fino al 1965. Forse questo è il motivo per cui alcuni sostengono che in “Black Boy Fly” il personaggio di Major Taylor pare quasi essere privo d’una volontà propria: pare essere sballottato dagli eventi e dalla volontà dei bianchi che gli stanno intorno, nonostante siano persone che lo apprezzano e gli vogliono bene. Perché è proprio così: i neri per molto tempo si sono mossi nelle strettissime pieghe dello spazio esiguo che i bianchi lasciavano loro.”

La bicicletta come riscatto sociale. In Black Boy Fly la bicicletta ha un ruolo così forte: un oggetto legato a una libertà che assume tante sfumature. La bici porta Major Taylor lontano da casa e lo lancia verso traguardi impensabili allora per un ragazzo nero fino a superare “la linea del colore”. Come hai affrontato questo legame intimo tra Marshall e questa compagna di viaggio? Cosa ha significato per lui?

“In realtà questo tipo di approccio non l’ho neppure considerato. È mia precisa convinzione che se Louis Birdie Munger non l’avesse indotto ad approfittare delle sue doti, Major non avrebbe ottenuto i risultati sportivi che poi ha ottenuto. Vale il ragionamento che ho fatto prima. Per un nero era inimmaginabile costruire una carriera sportiva alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti d’America basandosi sulle proprie forze. Ciò accadeva se un bianco faceva da mallevadore. Major Taylor non viveva ai tempi, sempre difficilissimi, di Muhammed Alì e Joe Frazier. Le considerazioni che Major Taylor fa nella sua autobiografia a proposito del problema razziale sono legate al fatto che correndo tra i professionisti prende coscienza del fatto che tutti, tranne alcuni, cercano di ostacolare la sua evidente superiorità. È in quel momento che la “linea del colore” gli appare rovente. Ma se ne rende conto solo perché un bianco volonteroso lo ha introdotto in quel mondo. Non ci fosse stato Birdie Munger sono certo che di Major Taylor non avremmo mai sentito parlare.”

Quali altri esempi nella storia dello sport puoi citare che hanno avuto la bici al centro come strumento dirompente in grado di superare le differenze di genere, razza, credo politico o religioso?

“Per quanto riguarda il ciclismo non ce ne sono. I primi nomi che mi vengono in mente, di persone che hanno la consapevolezza di oltrepassare “la linea del colore”, sono quelli di Jackie Robinson nel baseball, che irrompe nel diamante dei bianchi, e, nell’atletica, Tommy Smith e John Carlos, che sono i protagonisti di uno dei più bei libri che ruotano attorno allo sport mai pubblicati in Italia: “35 secondi ancora” di Lorenzo Iervolino. Una vera mosca bianca nel panorama del settore.”

Ho lasciato per ultima la domanda sul parallelismo che hai portato avanti tra sport e musica nera come ulteriore strumento contro la segregazione razziale. All’inizio di ogni capitolo ci sono citazioni che vanno da John Coltrane ai Neville Brothers a Nina Simone che, secondo la rivista Rolling Stone, oltre a essere una delle 100 cantanti migliori di tutti i tempi, era anche una attivista per i diritti civili. Come hai scelto i pezzi? Qual è il tuo rapporto con la black music?

“Sono stato e sono ancora un appassionato di blues, in particolare, e di musica afro-americana in generale. Il rhythm and blues è stato probabilmente il genere musicale che ha rappresentato la colonna sonora del cammino che ha minato le basi della segregazione. Credo anche che la musica nera sia stata più importante dello sport lungo quella via. Perciò, sin dall’inizio, ho pensato a un legame forte tra la storia di Major Taylor e la musica afro-americana, nonostante le sue più grandi vittorie accadono quando i tre principali filoni musicali non esistono ancora: il blues, il jazz e il gospel (da cui nascerà il rhythm and blues) vivono ancora nel magma indistinto dei minstrel show e del vaudeville. Ma ho immaginato che quei generi nuotassero già in quella gran confusione originaria, che vivesse in quel calderone persino il rap. Per scegliere i pezzi ho pensato a ciò che accadeva nel capitolo – che sentimento si poteva estrapolare dallo svilupparsi della trama – e così ho deciso i brani, anche se, in realtà, ne avrei potuti scegliere altri cento. Il calderone della grande musica nera è sterminato.”


Il Libro

Black Boy Fly

L’irresistibile ascesa di Major Taylor

Autore: Marco Ballestracci

Editore: Mulatero – collana Pagine alvento

Prefazione: Gino Cervi


La Video intervista a Marco Ballestracci

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