Scrivere di Sport – Mal di sport di Betta Carbone

Scrivere di Sport incontra Betta Carbone, autrice di “Mal di sport – Lo sport fa male. Perché farlo male fa male allo sport”

Triatleta amatoriale, catanese di origine, Betta lavora nel mondo dell’informazione, prima in radio e poi, dal 2005, come redattrice del settimanale “Diva e Donna”, dalle cui colonne racconta e intervista i personaggi dello sport e dello spettacolo, specialmente quelli femminili. Ha pubblicato tre libri: La mamma riccio. Come crescere i figli con dolcezza, senza dimenticare gli aculei (2012), Gli inaffondabili. Storie di ragazzi allenati alla vita (2015) e, sempre nel 2012, a quattro mani con la campionessa olimpica, la biografia Io, Valentina Vezzali. 

“Lo sport deve essere inserito nella quotidianità come un farmaco a costo zero, un distillato di benessere per tutti”

È con sapiente ironia che Betta Carbone affronta i temi serissimi contenuti nel suo piccolo grande libro. Non mancano naturalmente spunti che fanno riflettere su quanto sia difficile oggi per un atleta coltivare la passione dello studio, sostenendolo nella dual career, oppure diventare madre. Ma “fare male lo sport” è anche una conseguenza delle responsabilità delle istituzioni che non sempre considerano lo sport, e i luoghi dove esso viene praticato, con la giusta attenzione come dovrebbe essere fatto.

L’intervista a Betta Carbone

Mal di sport. Perché hai deciso di scrivere questo libro e come si scrive oggi un libro che parla di temi difficili come alcuni di quelli che approfondiremo durante la nostra chiacchierata?

“Praticando sport amatoriale, facendolo fare alle figlie, frequentando da anni gare, giovanili e non,  essendo per natura curiosa, e per professione cronista, osservo da lungo tempo le varie tipologie di sportivi e l’approccio all’attività fisica. Specialmente negli ultimi anni mi sono resa conto di una deriva “ossessiva compulsiva, spinta spesso dalle logiche del marketing delle società con cui ci si tessera se si vuole fare agonismo. La deriva in sostanza è: se non fai qualcosa di estremo sei una “pippa”. A prescindere da età, attitudine fisiche, impegni di lavoro, c’è in molti una tendenza ad esagerare che porta a farsi male, a perdere la spinta originaria per fare sport: divertirsi e stare in salute. La spinta definitiva me l’ha data il lockdown quando mi sono resa conto che lo sport in Italia, proprio o anche per questo sua cattiva interpretazione, viene visto o solo come un hobby, dunque sacrificabile (vedi la chiusura di palestre e piscine più a lungo di tante altre attività ed equiparate praticamente alle discoteche), o qualcosa per esaltati, quelli che hanno continuato a correre km e km su e giù per le scale del condominio o, come criceti, intorno al divano del soggiorno. Manca tutto quello che sta in mezzo tra questi due estremi: lo sport per tutti che fa bene a tutta la società”

Il tuo libro è diviso idealmente in due “gironi” (perdonami il termine): lo sport che fa male e lo sport che fa bene. Quindi non basta fare sport? 

“Lo sport serve sempre, inteso come terapia di benessere quotidiano e a costo zero. Abbiamo lo stesso Dna dei nostri antenati cacciatori e in eterno movimento. Stare sul divano non fa bene a quel povero Dna. E non lo dico io, nel libro ci sono voci autorevoli che lo raccontano. Ma non ha senso farsi 20 km di corsa alla domenica, 120 in bici, se poi durante la settimana uso la macchina per andare a comprare il pane a 500 metri di casa. Ecco lo sport che fa bene è prima di tutto una presa di coscienza di quel che serve al nostro corpo, e anche al nostro umore. Lo sport che fa male è quello del “Vai oltre i tuoi limiti!” Ma anche no! Lo posso fare se sono un atleta professionista, nella giornata mi alleno e basta, e poi ho a disposizione fisioterapista mental coach nutrizionista etc etc”

Lo sport fa male, se fatto male e fa male allo sport essere così poco considerato in Italia perché ne crescano la considerazione e la reputazione, perché entri nella cultura di massa, lo sport va fatto bene, e raccontato ancora meglio.”

Per dire che lo sport è poco considerato in Italia dovremmo elencare i dati che hai raccolto anche solo sui luoghi dove si pratica sport e sulle differenze tra nord e sud. Cosa hai provato quando ti sei imbattuta in questi numeri? 

“Rabbia e sconforto. Perché sono una donna, meridionale e madre. E le donne, i nostri figli, e i figli del Sud, sono le categorie che hanno meno “diritto” all’attività fisica in Italia, dove fare sport spesso è questione di censo e di latitudine. Il risultato? Il tasso di obesità infantile in impennata al sud e la vita mediamente più corta al meridione, specie per le donne”

Oggi viviamo in un mondo fatto di comunicazione continua. Naturalmente, essendo lo sport uno dei momenti di entertainment più vissuti dal pubblico dei lettori/ascoltatori, soggiace alle regole imposte dai codici di comunicazione digitale. Tu hai a che fare con la comunicazione quotidianamente. Come si raccontava lo sport ieri e come si racconta oggi tra social media e carta stampata?

“Timidamente, troppo timidamente, appare qualche spiraglio. Ma domina troppo, a mio avviso, la logica della prestazione a tutti i costi. Si raccontano medaglie, e trionfi, giustamente, ma quello che c’è dietro? e quello che serve per iniziare? E il fatto che molte discipline non sono accessibili a tutti?? vi siete mai chiesti perché i tuffatori arrivano solo da alcune regioni? Perché non in tutte ci sono i trampolini. E se sono nata a Catania e voglio fare quello sport, devo andare via da casa a 14 anni! E poi io vorrei che nelle cronache sportive entrasse anche lo stato delle palestre nelle scuole, quando ci sono, vorrei cioè che i professionisti del racconto sportivo dessero luce anche ai bachi del sistema, non solo ai trionfi!!”

“Nel sistema sportivo italiano le atlete rappresentano solo il 28,2% (i maschi sono al 71,8%), le dirigenti di società sportive sono il 15,4% (gli uomini l’84,6), i tecnici donna sono poco meno del 20%, le dirigenti federali il 12,4%, le ufficiali di gara il 18,2% (dati Coni) Però andate a riguardare il medagliere azzurro di Tokyo 2020: delle 40 medaglie azzurre 15 sono state ottenute da donne, e una da una coppia uomo-donna. Significa che i risultati al femminile pesano quasi per il 40%, sebbene l’accesso allo sport per le donne sia molto inferiore, come pure i loro guadagni. E per non dire del peso dei pregiudizi.”

Il tema delle donne nello sport è sempre un argomento difficile da affrontare. Ci ritroviamo a confrontarci con una società medievale che considera lo sport al femminile uno sport di serie B così come diviene un fatto straordinario se una donna riesce a ricoprire una carica politica sportiva. Da cosa pensi dipenda la nostra assenza o poca valorizzazione e cosa sta cambiando?

“Principalmente dal fatto che ancora la divisione tra i compiti familiari e di cura non è equa, per cultura, per disparità salariale (le donne guadagnano ancora meno, e se tra lui e lei uno deve rinunciare al lavoro per stare a casa con i figli per lo più è ancora lei). In alcune fasi della vita poi c’è lo stop per la gravidanza, e la gestione di un neonato. Faccio solo notare che i figli sono figli anche dei maschi… Storia vecchia, purtroppo, su cui troppi storcono il naso (eh ma sempre che vi lamentate…) Sì, certo, passettini avanti ne abbiamo fatti. Pochi, ancora troppo pochi. Eppure grazie a una donna che aveva avuto l’ardire di candidarsi, perdendo, per la Presidenza del Coni, Antonella Bellutti, si è cominciato a parlare di palestre e di accesso allo sport per tutti…”

Andiamo avanti con temi ancora più verticali e che fanno parte del format Sportive Digitali in cui è contenuta questa rubrica. Nel tuo libro racconti quanto sia difficile tenere in equilibrio sport e studio e di come, ancora una volta, le donne siano penalizzate soprattutto se vogliono diventare madri. Uno dei capitoli è dedicato a Lara Lugli dove descrivi un tema tristissimo e scoperchi ancora una volta una realtà fin troppo diffusa soprattutto nelle serie minori dello sport italiano. Lara ha giocato 25 anni e i primi contributi se li è visti versare dalla cooperativa dove ha iniziato a lavorare dopo il caso che ha visto la sua storia ripresa da tutti i giornali. Insomma oggi se una donna (ma anche un uomo) vuole studiare e fare sport e se vuole diventare madre incontra difficoltà paradossali. Come ci si sente, da donna, a scrivere di questi argomenti?

“Sono argomenti che bazzico da sempre anche in precedenti libri. Alterno rabbia, sarcasmo e cinismo, anche nei toni dei miei racconti, un po’ per andare oltre i luoghi comuni un po’, nel quotidiano, per sopravvivere. Ho la fortuna che con mio marito e le mie due figlie siamo riusciti a diventare una vera squadra, quindi alle parole unisco i fatti. Quando le mie bambine erano piccole, e l’ho raccontato nel mio primo libro “La mamma riccio”, io e mio marito ci davamo i turni per andare a correre o nuotare o accompagnare le figlie in piscina. Perché uno degli aspetti poco raccontati dell’attività fisica è il piacere della condivisione. Oggi io, mio marito e mia figlia minore siamo nello stesso gruppo di nuoto… ovviamente mia figlia nelle corsie veloci, io in quelle lente!”

Prendiamo la bici. Anzi no. Andiamo prima a incontrare Omar, il dottore dei pedali, l’uomo che sussurra ai ciclisti. Come ti sei imbattuta in lui?

“Per risolvere un fastidioso mal di schiena che mi veniva dopo nemmeno una mezz’oretta in bici da corsa. Omar è un biomeccanico, specialista in quella che si chiama “La messa in sella”, cioè trovare il giusto assetto per ciascuno sulla propria bicicletta, con criteri scientifici. Solo che, (te l’ho detto che sono una curiosa e chiacchierona vero?), mentre pedalavo nel suo studio, sui rulli, e lui faceva tutte le sue misurazioni, mi sono messa a fare domande. E ho sentito nelle sue parole lo sconforto verso il 90% dei suoi “clienti” che, sue parole letterali “si sderenano la domenica con 200 km in bici, ma poi durante la settimane non fanno nulla”

Betta non resta che chiederti che ciclista sei, visto che so che vai in bici. Pensi che la bicicletta possa essere uno strumento di libertà, ecosostenibile e che contribuisca a rendere più felici le persone?

“Sono una ciclista stagionale: bdc solo con almeno 10 gradi, d’inverno nonnobike (una bianchi del 73) per spostamenti urbani e un po’ di mtb tra i campi quando possibile. La bici renderebbe tutti più felici se tutti la usassero di più, quotidianamente, mica per preparare un ironman. Nella mia città solo a gennaio due ciclisti sono stati travolti e uccisi nel traffico… Questo aspetto non c’è nel libro, ma parliamone!

Siamo ancora in tempo per rinsavire?

“Se impariamo a rispettare i nostri limiti, ascoltare il nostro corpo, anche il nostro Dna del Neanderthal che ci impone di muoverci ogni giorno, quando si può, come si può, anche scendendo dalla metro due fermate prima, assolutamente sì”


Il Libro

Mal di sport

Lo sport fa male. Perché farlo male fa male allo sport

Autore: Betta Carbone

Editore: Bolis

Collana: Storie di sport


La Video intervista a Betta Carbone

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